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Fast fashion: chi paga il costo dei prezzi bassi?

Fast fashion, “la moda democratica”, un affare da 36 miliardi di dollari che, abbattendone i costi, porta la moda di tendenza negli armadi di ognuno di noi. Un fenomeno capace di produrre ogni anno 17 milioni di tonnellate di vestiti, pari a 100 miliardi di capi, causando danni non quantificabili.

Qualche mese fa siamo andate in trasferta a Torpignattara. A portarci “oltreconfine”, un evento organizzato dalla sociologa ed esperta di ecosostenibilità Serena Mazzuca, alias mini-eco-malìa, e da Centro Studi Atelier Centodue.

locandina dell'evento di mini-eco-malìa e atelier centodue con il programma dell'evento: mercatino del baratto e intervento sulla fast fashion

Serena ha tenuto un intervento sulla fast fashion che ci ha rivelato, con dati e numeri, gli effetti di questo fenomeno a livello ambientale e sociale. Le abbiamo chiesto di riassumerne qui i contenuti.

Buona lettura!

Alle origini della fast fashion

Nel 1600 in Europa e negli Stati Uniti nascono gli slop shop, primi esempi di botteghe di abbigliamento economico pronto per essere indossato: comincia così a diffondersi l’idea che sia possibile comprare vestiti preconfezionati.

È nel 1800, con la rivoluzione industriale e l’introduzione delle macchine tessili – soprattutto della macchina da cucire, brevettata nel 1846 –, che si riducono tempi e costi di manodopera, rendendo possibile la produzione di abiti per stock di taglie. Nonostante le innovazioni, però, la lavorazione rimane ancora artigianale e, per la maggior parte delle persone, casalinga.

Durante la Seconda guerra mondiale i governi decidono di razionare le stoffe: questo impone uno stile più diretto ed essenziale e la ricerca di nuovi materiali, quali ad esempio il nylon, facilitando una produzione standardizzata e di massa e riducendo notevolmente i costi.

Su questa scia nascono piccole aziende tessili: la prima ad aprire – siamo in Svezia, nel 1947 – è H&M, con il nome di Hennes (ossia “Le cose di lei”); la “M” arriverà solo nel 1968, quando viene acquistata la boutique di abbigliamento maschile di Mauritz Widforss. Seguono la britannica Topshop nel 1964 e l’irlandese Primark nel 1969.

Sarà però Zara, fondata nel 1975 a La Coruña, in Spagna, a sancire questo nuovo modello di business che ruota intorno all’idea che tutti si possano vestire dignitosamente con meno. Lo fa attraverso la fondazione, a metà degli anni ’80, della holding Inditex, che raggruppa molti di questi brand.

Il 31 dicembre del 1989 la giornalista Anne Marie Schiro, in un articolo sul New York Times pubblicato in occasione della prima apertura di Zara nella città americana, conia l’espressione “fast fashion”. E nel 2000, quando nella Grande Mela sbarca anche H&M, un nuovo articolo afferma che è diventato più chic pagare di meno. È infatti dagli anni ’90 che, a prescindere dal potere di acquisto, la fast fashion è diventata un fenomeno di costume.

Ma ben presto i limiti di un sistema che tenta di realizzare un’utopia, come quella di rendere accessibile a tutti una moda da prêt-à-porter, vengono a galla. Ritmi sempre più veloci e costi in rapida discesa non sono veramente sostenibili: i prezzi contenuti degli abiti hanno in realtà un costo elevato e a pagarlo sono lavoratori e ambiente.

Un anno di fast fashion: 52 micro-stagioni

La giornalista Elizabeth Cline nel suo saggio “Overdressed: the shockingly high cost of cheap fashion” – tradotto in italiano nel 2018 col titolo “Siete pazzi a indossarlo. Perché la moda a basso prezzo avvelena noi e il pianeta.” – ci racconta come questi brand siano arrivati a produrre circa 52 “micro-stagioni” all’anno, ovvero una nuova collezione a settimana.

Negli ultimi anni la situazione si è ulteriormente aggravata: l’esplosione degli e-commerce ha rimodellato il modo di consumare, dando una nuova forma anche ai prodotti. Con Shein si raggiunge la soglia di una nuova collezione ogni tre giorni basata sul modello “test and repeat”, secondo cui un’azienda, per cambiare rapidamente gli articoli, li produce in piccole quantità mantenendo lo stock per un tempo limitato.

Shein mantiene il 70% delle proposte per sole 8 settimane, giocando sul sentimento di urgenza. Spinge, inoltre, sul fenomeno del “dupe”: copie di oggetti griffati a bassissimo costo. Meccanismi che soddisfano la voglia di novità dei consumatori, in una sorta di evoluzione della fast fashion in “ultra fast fashion”.

Tutto ciò fa leva su una generazione, la Z, che è sì attenta ai temi ambientali, ma che è anche cresciuta nel momento di massimo sviluppo degli acquisti online a prezzi competitivi e che, in genere, non è disposta a spendere per l’abbigliamento.

Fast fashion e delocalizzazione: leffetto sulla condizione dei lavoratori

Il tessile, terzo datore di lavoro dopo cibo e turismo, rimane uno dei settori con la più alta densità di manodopera: conta circa 13 milioni di lavoratori, per la maggior parte impiegati in Paesi in cui il costo del lavoro è molto basso e i diritti dei lavoratori non sono contemplati.

Favorita dal progresso dei trasporti e dei mezzi di comunicazione, la delocalizzazione dei sistemi di produzione è lo strumento tipico delle multinazionali e si fonda su due princìpi:

  • l’unicità economica
  • l’alterità giuridica.

Questa contrapposizione comporta una serie di difficoltà di gestione pratica, ma offre enormi vantaggi legali. Ogni sede ubbidisce alle sole leggi dello Stato in cui opera: il sistema così impostato crea dei vuoti giuridici e, beneficiando ciascuna unità della responsabilità limitata, permette alla società madre di restare estranea al compimento dei reati delle sussidiarie, anche perché la dislocazione di una fitta rete di piccole aziende in più Paesi rende impossibile un effettivo tracciamento.

Il commercio tessile, inoltre, fino al 2005 è stato regolamentato dal Multi Fiber Arrangement che imponeva restrizioni alle quantità di prodotti esportabili dai Paesi in via di sviluppo; una volta decadute queste restrizioni, viene disciplinato dalle regole generali del sistema commerciale multilaterale, avendo molto più spazio di manovra. Questo ha permesso una rapida e ulteriore delocalizzazione dalla Cina a Paesi dove è stata possibile l’ennesima riduzione delle spese visto il bassissimo costo della manodopera.

Sweat shop, le famigerate botteghe del sudore

Gli sweat shop sono luoghi in cui le condizioni di pericolo rappresentano la normalità: edifici privi delle necessarie autorizzazioni, caratterizzati da sovraffollamento, assenza di sicurezza degli impianti, carenza di adeguati strumenti lavorativi. Turni di lavoro estenuanti, nessuna tutela per la salute e condizioni salariali inesistenti costringono, per pochi dollari al mese, a produrre fino a 500 capi al giorno.

La richiesta incessante di abbassare i costi a favore di una produttività sempre maggiore porta con sé la riduzione della tutela dei lavoratori e l’aumento della violazione dei diritti umani in un sistema vizioso in cui gli stessi sfruttatori sono sfruttati e costretti a continuare a sfruttare.

Si è arrivati così a situazioni come quella che il 24 aprile 2013 a Dacca, in Bangladesh, portò al crollo del Rana Plaza: fu l’incidente più grave mai successo nella storia del tessile: 1.134 vittime e oltre 2.500 feriti. Una tragedia annunciata, visto che da tempo venivano denunciati problemi strutturali. Ma i proprietari, per paura di perdere le commissioni, continuarono fino all’inevitabile a minacciare i dipendenti perché si presentassero sul posto di lavoro.

Le conseguenze ambientali della fast fashion

Il tessile è il secondo settore più inquinante al mondo dopo il petrolchimico e il primo per consumo energetico e di risorse naturali. Ci troviamo in Paesi carenti sulla legislazione e in cui non vengono applicati tutti quei controlli obbligatori secondo le normative europee; nazioni dove la tecnologia è obsoleta e si utilizzano macchinari a carbone, a causa degli alti costi che comporterebbe la transizione energetica. Questo significa che un vestito realizzato in questi Paesi ha un +40% di impronta ecologica rispetto allo stesso prodotto lavorato in Europa.

L’impronta idrica

L’impronta idrica nell’industria tessile, cioè la quantità totale di acqua dolce utilizzata nella produzione e nel consumo di un prodotto, è pari al 20% dello spreco globale di acqua. Per esempio, per realizzare una t-shirt si va dai 2.700 ai 3.900 litri di acqua. Per un paio di jeans ne servono dai 7.000 ai 10.000. Questo significa che per far fronte a tutta la produzione vengono impiegati ben 93 miliardi di metri cubi tra coltivazione e produzione, un volume pari al 4% dell’acqua potabile globale; circa 20 miliardi di metri cubi servono poi per i vari lavaggi da casa.

L’inquinamento

Per contenere i costi di produzione, le sostanze di scarto delle lavorazioni vengono riversate nei terreni e nelle falde acquifere, avvelenando fonti, fiumi e mari, e causando la perdita della biodiversità e gravi danni all’ambiente circostante e alla salute dell’uomo.

La fast fashion è responsabile inoltre del 10% delle emissioni di CO2 e produce più gas serra di tutti gli spostamenti di aerei e navi del mondo.

La moda attuale ha un potente alleato nel poliestere, fibra sintetica caratterizzata da un’estrema resistenza e vestibilità e da costi contenuti, che oggi occupa il 60% della produzione di materiali per indumenti. Essendo però un derivato del petrolio, se non viene smaltito correttamente ma disperso nell’ambiente si scompone in microparticelle di plastica che distruggono habitat naturali e creano notevoli danni agli animali e all’uomo. Si stima che il tessile sia responsabile della dispersione di una quantità di microplastiche compresa tra le 200.000 e le 500.000 tonnellate, pari al 35% di quelle presenti nel mondo.

La manifattura delle fibre, siano esse naturali o sintetiche, comporta inquinamento: le piantagioni di cotone, infatti, che coprono meno del 3% della terra coltivata, utilizzano il 10% dei pesticidi e il 25% degli insetticidi impiegati nell’agricoltura mondiale e circa 11.000 litri d’acqua per la produzione di un solo chilo di cotone; senza contare che il cotone viaggia per circa 12.000 km dal campo agli scaffali.

I rifiuti

Lo shopping non risponde più a un bisogno, ma a un impulso: compriamo il 60% in più di prima. Qui di seguito, alcuni numeri e informazioni rilevanti per capire meglio gli effetti di questa tendenza in termini di produzione di rifiuti e impatto ambientale:

  • I vestiti sono pensati per non essere indossati più di 10 volte e la vita media di un capo oscilla tra i tre e i tre anni e mezzo.
  • In Europa ogni anno si consuma una media di 26 chili di fibre tessili pro capite (negli Stati Uniti 37 e in Italia 14,5), di cui ben 11 finiscono in discarica, il triplo rispetto al 1975, il 40% in più rispetto agli anni ‘90. Un consumo gonfiato dal calo del 30% dei prezzi registrato tra il 1996 e il 2018.
  • Nel 2020 sono state adoperate circa 175 tonnellate di materie prime: il 40% sono attribuibili all’abbigliamento e solo il 20% di queste viene dall’Europa.
  • Ad oggi solo l’1 per cento di tutto il tessile prodotto nel mondo viene riciclato: l’85% dei vestiti finisce in discarica e rappresenta il 22% della spazzatura indifferenziata.
  • L’80% dell’impatto ambientale di ciò che consumiamo viene registrato dall’altra parte del mondo.

Se da un lato è vero che compriamo troppo, dall’altro compriamo troppo poco rispetto alla sovrapproduzione. Un’inchiesta del Wall Street Journal del 2018 aveva fatto emergere come sia diffusa tra i marchi di lusso la pratica di bruciare l’invenduto per evitare che, una volta passata la stagione, gli abiti venduti in outlet o a prezzi scontati vengano svalutati. H&M produce consapevolmente in eccedenza: nel 2018 ha annunciato di avere l’equivalente di 4,3 miliardi di dollari di inventario invenduto.

L’esportazione di abiti spazzatura nei Paesi più poveri è diventata una “valvola di sfogo” di questa sovrapproduzione sistemica e un flusso di rifiuti invisibile che dovrebbe essere illegale. Il commercio di abiti usati è un’evidente lacuna in un accordo legale del 2019 che impedisce ai Paesi più ricchi di scaricare rifiuti plastici non riciclabili in quelli meno ricchi.

La discarica di Dandora a Nairobi, in Kenia

Il Kenya importa ogni anno circa 140.000 tonnellate di vestiti usati che vengono acquistati e rivenduti. Un indotto economico (mitumba, in swahili “seconda mano-business”) che, secondo alcuni, va a saturare il mercato, portando al crollo della produzione locale; per questo nel 2019 Ruanda, Uganda e Tanzania ne hanno vietato l’importazione.

Il vero problema è però costituito dagli scarti: di anno in anno la quantità dei vestiti dismessi aumenta, abbassando decisamente la qualità della manifattura. Questo surplus sempre più difficile da smaltire diventa una delle maggiori cause dell’inquinamento locale alimentando discariche a cielo aperto come quella di Dandora.

Se vuoi approfondire, ti consigliamo questo documentario che ha un focus proprio sul fenomeno del mitumba:

Il deserto di Atacama Iquique, in Cile

39 milioni di tonnellate di capi vengono scaricati ogni anno nel cosiddetto cimitero della fast fashion, nel deserto di Atacama, in Cile, zona franca dove tutto questo avviene sotto gli occhi e con il tacito assenso delle autorità. Atacama è un enorme problema ambientale a livello mondiale, con le sue montagne di vestiti destinate a rimanere lì, perché ogni singolo capo per degradarsi impiega più di 200 anni.

Volumi ingestibili che vengono gestiti con forme di contenimento fai da te: appiccando incendi dolosi, che producono fumi tossici (bruciare un chilo di vestiti genera 1,36 chili di diossido di carbonio ed è più contaminante che bruciare carbone o gas naturale). O sotterrando enormi quantità di vestiti che andranno a inquinare le falde acquifere, già limitate, visto che si tratta del secondo deserto più arido al mondo.

Concludendo

In meno di mezzo secolo la fast fashion ha causato danni difficilmente quantificabili, accelerando la logica del superfluo e seppellendo abilmente i costi ambientali e umani della sovrapproduzione elevata a valore. Ma dietro a questo modello di business, come sempre, c’è una domanda pronta a sostenerlo: solo dalla consapevolezza delle conseguenze delle nostre scelte può partire il cambiamento.

FONTI:

  • Thevision.com
  • The true cost
  • Lifegate.it
  • Greenme.it